Riflessioni sul ruolo del linguaggio nella ricerca psichedelica
Tradotto da Matteo Gori, modificato da Federica Mauro
“Trasumanar significar per verba non si porìa; però l’essemplo basti a cui esperïenza grazia serba.”
Paradiso I, 70-72
Recentemente C.J. Büche ha scritto un’analisi approfondita del ruolo di particolari rappresentazioni di sostanze psichedeliche nei media popolari nel “rinascimento psichedelico”.1 Oltre al suo lavoro, nel dibattito scientifico possono essere esaminati anche diversi modi di descrivere gli psichedelici. Prestare attenzione alle scelte linguistiche può offrire una visione significativa delle convinzioni culturali e personali degli autori, con le dovute eccezioni.
In alcuni casi, i ricercatori possono essere stati costretti da agenzie di finanziamento e comitati etici a descrivere le sostanze psichedeliche in termini negativi, indipendentemente dalle proprie convinzioni, come condizione preliminare per portare avanti e pubblicare i propri studi.
Proprio come nei media generali, nei media scientifici si può trovare una varietà di descrizioni contrastanti delle sostanze psichedeliche. Si possono identificare almeno tre tipi di linguaggio: nel primo, gli psichedelici sono descritti come privi di utilità medica ead alto potenziale di abuso (farmaci della “Tabella 1” a tutti gli effetti).2 Nel secondo, sono considerati potenzialmente fondamentali per una migliore comprensione del funzionamento cerebrale3 e trattamenti innovativi4 per condizioni psichiatriche altrimenti non trattabili. Nel terzo tipo di linguaggio, gli psichedelici sono descritti solo o principalmente come “farmaci che provocano psicosi”5 e considerati utili dal punto di vista medico nello studio di disturbi psicotici come la schizofrenia. Questa suddivisione è ovviamente in una certa misura una semplificazione: gli stessi autori possono usare un linguaggio diverso in articoli diversi, e sono possibili anche opinioni “miste”.
Il primo tipo di linguaggio, riassunto dall’affermazione che le sostanze psichedeliche sono droghe con un alto potenziale di abuso e nessuna utilità medica, ha poche o nessuna base scientifica.6 Questa visione stigmatizzata degli psichedelici può essere fatta risalire ad un’eredità politica del “Controlled Substances Act” del 1970 e della successiva “War on Drugs”, e sta rapidamente scomparendo dalle pubblicazioni scientifiche alla luce di prove più recenti e più rigorose. Tuttavia, è importante notare che:
1) Gli studi clinici contemporanei sono stati condotti con campioni di dimensioni ridotte, processi di screening altamente restrittivi, sotto costante controllo medico professionale e non sempre con la possibilità di una condizione di placebo completamente in doppio cieco.7 Tutti questi fattori possono aver contribuito al loro successo. Ciò non intende sminuire gli impressionanti risultati di questi studi rigorosi e difficoltosi (in particolare nelle popolazioni resistenti a trattamento), piuttosto suggerisce di evitare conclusioni affrettate, come che gli psichedelici possono essere panacee prive di rischi per tutti I disturbi psichiatrici.
2) Sebbene ci siano prove che a livello di popolazione i rischi degli psichedelici siano stati sopravvalutati8, non ci sono prove conclusive per la sicurezza degli psichedelici a livello individuale ed in particolare c’è poca comprensione degli effetti persistenti come l’HPPD.9 Le pratiche “terapeutiche” non professionali che comportano l’uso di sostanze psichedeliche al di fuori dei contesti clinici presentano dunque un rischio significativo.
Questo rischio è potenzialmente più alto rispetto all’uso ricreativo, non solo a causa dell’elevata varianza di fattori soggettivi ed ambientali già intrinseci nelle esperienze psichedeliche, ma soprattutto perché queste pratiche prendono di mira popolazioni con problemi neurobiologici potenzialmente non affrontati ed alta sensibilità psicologica.
Il secondo tipo di linguaggio, che descrive le sostanze psichedeliche come medicinali utili e strumenti importanti per la ricerca scientifica, è (ri)emerso di recente con l’ondata contemporanea e meno politicamente vincolata della ricerca psichedelica guidata, tra altri, dai gruppi dell’Imperial College di Londra e della Johns Hopkins University. Il termine “rinascimento psichedelico” si riferisce comunemente a queste linee di ricerca, i cui meriti sono molteplici, innegabili ed ampiamente documentati altrove.10 In questo contesto, vale solo la pena sottolineare che alcuni di questi studi possono anche essere criticati per l’utilizzo di termini culturalmente specifici (ad esempio “esperienze mistiche”, “dissoluzione dell’io”) sotto il presupposto implicito che riflettano fenomeni in qualche modo universali o biologicamente-fondati, che non è necessariamente il caso.
Ad esempio, le culture non occidentali che utilizzano sostanze psichedeliche possono mancare del concetto di una “esperienza mistica” contemplativa, o delle visioni dualistiche di soggetto/oggetto ed interno/esterno implicite nella “dissoluzione dell’ego”. Pertanto, potrebbero sperimentare ed interpretare gli stessi fenomeni neurologici secondo un’ontologia completamente diversa. Teorie cognitive influenti, come la codifica predittiva, suggeriscono infatti che le aspettative culturali e personali (così come il linguaggio stesso)11 modellerebbero con forza il contenuto e l’interpretazione delle esperienze psichedeliche, in accordo con una lunga storia di osservazioni.12
Il terzo tipo di linguaggio è particolarmente interessante, perché è stato ed è ancora abbastanza diffuso, nonostante abbia sollevato una serie di questioni scientifiche e filosofiche proprie. Ha senso caratterizzare le sostanze psichedeliche solo o principalmente come “droghe che provocano psicosi”? La loro utilità psichiatrica va ricercata solo o principalmente in quanto modelli di “psicosi simile alla schizofrenia”?5
La definizione canonica di psicosi si basa su allucinazioni, salienza anomala, e convinzioni deliranti, ed appare ineccepibile nell’identificazione di casi patologici.
Tuttavia, è così solo perché si basa su un insieme specifico e condiviso di convinzioni e presupposti. Il linguaggio che caratterizza gli psichedelici solo o principalmente come “droghe che inducono psicosi” non può essere pienamente giustificato a livello empirico, ma deve invece fare affidamento su un giudizio a priori molto specifico sul contenuto delle esperienze psichedeliche, nonché su ipotesi non dichiarate su ciò che costituisce il reale, quanto di esso è socialmente costruito e, cosa importante in questo contesto, quanto di esso è accessibile attraverso il linguaggio.
Queste domande sono state oggetto di un intenso dibattito filosofico per millenni, ma vengono esaminate in alcuni articoli scientifici utilizzando questo tipo di linguaggio. La “realtà” è implicitamente considerata deterministica, meccanicistica e completamente compresa nel linguaggio analitico e nelle leggi matematiche: una visione del mondo ancora prevalente nelle scienze della vita di oggi, ereditata dalle scienze fisiche del XIX secolo. Tuttavia, anche le scienze fisiche si sono allontanate da tempo da questo punto di vista: il teorema di incompletezza di Gödel ed il principio di indeterminazione della meccanica quantistica, come le moderne colonne d’Ercole, pongono limiti fondamentali alla realtà sistematicamente conoscibile. Inoltre, le scienze sociali ci informano che gran parte di ciò che comunemente chiamiamo “reale”, o almeno accettabile, è determinato dal consenso della società, non da un esame scientifico. Le scienze umane ipotizzano che il linguaggio stesso, per non parlare della realtà, abbia innumerevoli interpretazioni possibili (con la scappatoia del pragmatismo: non tutte le interpretazioni sono ugualmente utili).
La definizione di psicosi, quindi, è almeno tanto culturalmente e socialmente determinata, quanto scientifica. Anche le esperienze psichedeliche sono fortemente influenzate dalla cultura, sia nel loro contenuto che nella loro interpretazione. Ciò suggerisce che, in particolare negli articoli scientifici riguardanti le sostanze psichedeliche, tutti i presupposti (ad esempio cosa costituisce il “reale”, quanto di esso può essere trasmesso attraverso il linguaggio) ed i costrutti (ad esempio “psicosi”, “esperienza mistica”) non dovrebbero essere dati per scontati come se fossero fatti scientifici determinati empiricamente, ma piuttosto attentamente esaminati per evitare potenziali confusioni.
L’utilità psichiatrica degli psichedelici si trova solo o principalmente nel fare da modello per “psicosi simile alla schizofrenia”? A prima vista, effettivamente, le esperienze psichedeliche possono condividere caratteristiche comuni delle psicosi schizofreniche: allucinazioni, mania, paranoia. Tuttavia, la ricerca mostra che non esiste un collegamento diretto tra alcuna sostanza modello e schizofrenia.13 Da un punto di vista metacognitivo, dopo aver assunto sostanze psichedeliche, la maggior parte delle persone sostiene che la sensazione dell’esperienza indotta sia in qualche modo diversa dalla realtà ordinaria della vita quotidiana (si noti che entrambi possono essere vissuti come “reali”, ma reali in modi diversi).14 Alcuni pazienti schizofrenici mostrano un tale schema di “doppia contabilità”, o la capacità di distinguere tra la realtà ordinaria e quella allucinatoria che sperimentano. Ma questo non è vero in tutti i casi: nelle psicosi schizofreniche “a contabilità singola”, le allucinazioni e la realtà ordinaria non sono distinguibili, ed entrambe sono automaticamente prese per ciò che sono. In tali casi, altre classi di sostanze, ad esempio allucinogeni anticolinergici15, fornirebbero un modello più accurato. Inoltre, le allucinazioni verbali uditive, un importante segno distintivo delle psicosi schizofreniche16, non sono una caratteristica prominente delle esperienze psichedeliche. Anche in questo caso, una diversa classe di sostanze (anfetamine) e modalità di utilizzo (cronico piuttosto che acuto) può fornire un modello più adatto.17
A maggior ragione, le prove che mostrano effetti positivi a lungo termine degli psichedelici sulla popolazione rispetto alla tendenza al suicidio ed alla sofferenza mentale18, così come i recenti studi clinici sulla depressione in pazienti affetti da cancro terminale19, dimostrano chiaramente che l’utilità psichiatrica degli psichedelici va ben oltre il fungere da modello per le psicosi6. Anche se si accettasse la premessa che gli psichedelici sono solo o principalmente “droghe che inducono psicosi”, si dovrebbe escogitare una spiegazione convincente del motivo per cui indurre una “psicosi simile alla schizofrenia” risulti essere una scelta positiva per la salute mentale, sia al livello statistico nella popolazione generale, che negli studi clinici controllati dal punto di vista medico. L’evidenza scientifica disponibile suggerisce quindi che sia di più sulla psicosi (e ancora di più sui disturbi psicotici complessi come la schizofrenia) di quanto gli psichedelici possano insegnarci a riguardo; e viceversa, c’è molto di più sugli psichedelici di ciò che essi possono insegnarci sulle psicosi e sui disturbi psicotici.
Sembra giustificata la conclusione che il linguaggio che caratterizza gli psichedelici solo o principalmente come droghe che inducono una “psicosi simile alla schizofrenia”, o che suggerisce qualsiasi relazione diretta tra i due, è nella migliore delle ipotesi un resoconto limitato, nel peggiore dei casi fuorviante, e basato su presupposti non dichiarati e discutibili. Per completezza, vale la pena notare che una simile linea di critica potrebbe essere sollevata contro il linguaggio che caratterizza gli psichedelici solo o principalmente come “droghe che inducono un’esperienza mistica” o “droghe che dissolvono l’ego”; ma questo non è successo finora in nessuna pubblicazione scientifica seria, ecco perché la critica qui è stata rivolta specificamente al linguaggio delle “droghe che provocano psicosi”. Lo stesso vale per qualsiasi altro tentativo di semplificare eccessivamente questi complessi fenomeni e ridurli ad un unico aspetto senza tenere conto di potenziali confusioni culturali e linguistiche.
Per brevità, non discuteremo i linguaggi delle teorie “unificanti” degli effetti psichedelici20, che richiedono una teoria unificata dell’esperienza cosciente, un compito incredibilmente interessante ma estremamente difficile per ovvie ragioni.
Non c’è consenso nella comunità scientifica quando si tratta di meccanismi specifici che dovrebbero mediare i potenziali benefìci degli psichedelici per le condizioni psichiatriche. Alcuni ricercatori propongono che siano dovuti ad una ridotta infiammazione21, altri ad una maggiore neuroplasticità22, altri ancora (tra i quali i gruppi chiave del rinascimento psichedelico) suggeriscono che raggiungere un’ineffabile “esperienza mistica”19 o “dissolvenza dell’ego”23 sia in realtà il fattore cruciale nel processo terapeutico. Tornando di nuovo al linguaggio: “Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao”.
Questa secolare osservazione diventa di nuovo rilevante nel contesto della ricerca psichedelica. Qual è il linguaggio più appropriato per studiare scientificamente esperienze per le quali forse il resoconto soggettivo più comune è che l’esperienza stessa si trova “oltre” o “fuori” dal linguaggio? C’è qualcosa che possiamo dire su concetti ed esperienze così ineffabili?24
Il quadro che emerge è affascinante e complesso, lungi dall’essere definito. In futuro, le scelte linguistiche giocheranno un ruolo cruciale25, in quanto possono costruire ponti e muri tra teorie (apparentemente) contrastanti. Gli psichedelici sembrano resistere a tutti i tentativi di caratterizzazione semplicistica, sistematica e completa: anche il meccanismo d’azione neurofisiologico più ampiamente accettato (agonismo del recettore 5HT2A26) non spiega direttamente perché sostanze con profili di affinità recettoriale completamente diversi possano avere effetti altamente sovrapposti con quelli degli psichedelici, ad esempio Salvinorin A27, agonista del recettore kappa-oppioide e composto attivo nella pianta Salvia Divinorum; o la ketamina, un antagonista del recettore NMDA con proprietà allucinogene a dosi specifiche28, capace anche di aumentare la neuroplasticità22 e che mostra grandi promesse nel trattamento della depressione29. Inoltre, gli effetti a valle della selettività funzionale per il recettore 5HT-2A sono ancora in fase di elaborazione30 e recenti analisi31 mostrano che anche le affinità per i recettori muscarinici e oppioidi possono essere rilevanti per prevedere gli effetti soggettivi riportati. Queste difficoltà potrebbero scoraggiare lo studio scientifico delle sostanze psichedeliche, ma viste in una luce diversa, aumentano notevolmente i potenziali contributi di queste sostanze alla scienza ed alla medicina.
In conclusione, queste riflessioni suggeriscono alcuni punti generali che, se implicitamente compresi ed esplicitamente implementati, potrebbero essere utili per avanzare in maniera produttiva nel campo della ricerca psichedelica.
La ricerca psichedelica sta già allargando i confini del linguaggio e dei metodi scientifici. Si potrebbe ipotizzare che un cambiamento di paradigma nel modo in cui vediamo la relazione tra i processi cerebrali e le esperienze soggettive sarà necessario per ottenere un resoconto completamente soddisfacente e naturalistico di questi fenomeni straordinari.
O forse anche quello non sarà abbastanza.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul APRA blog.
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