Intervista con Milan Scheidegger
Tradotto da Umberto Pan, modificato da Eleonora Corrias
Christoph Benner: Milan, il tema centrale del tuo lavoro è la psicoterapia trasformativa. Questa definizione potrebbe risultare pleonastica, come dire “miele dolce ” o “palla rotonda”. Ciò che intendo è: ogni psicoterapia non dovrebbe essere trasformativa di per sé? Perché la necessità di sottolinearlo?
Milan Scheidegger: Hai ragione, l’obiettivo di ogni terapia psichiatrica è la trasformazione di uno stato di salute disadattivo in uno maggiormente adattativo. Tuttavia, contrariamente alle classiche terapie sostitutive (si pensi all’uso di antidepressivi per sostituire la serotonina cerebrale nei pazienti depressi), la psicoterapia trasformativa rappresenta un’opzione terapeutica innovativa e promettente. Attraverso la breve ma profonda alterazione della coscienza indotta dalle sostanze psichedeliche, i pazienti hanno maggiori probabilità di raggiungere e mantenere uno stato di salute migliore. Mentre la terapia basata sulla sostituzione prende di mira principalmente i sintomi delle malattie, la terapia trasformativa si concentra sulle dinamiche causali che sono alla base di una particolare malattia. La decisione clinica su quale di queste opzioni terapeutiche si adatti meglio a un singolo paziente deve essere presa in base ad un’attenta valutazione del rapporto rischio-beneficio.
La tua risposta solleva immediatamente la questione se la terapia basata sulla sostituzione e la trasformazione cognitiva possano essere separate in maniera così netta. Ad esempio, è noto che i pazienti depressi hanno una densità sinaptica inferiore in diverse regioni cerebrali e che la ketamina e l’ayahuasca hanno entrambe la capacità di aumentare la sinaptogenesi. Quindi, queste sostanze potrebbero essere terapeutiche di per sé, viste le capacità di agire tanto sui deficit neuronali quanto sulla trasformazione della coscienza, non è così?
Se guardiamo alla storia della ricerca psichiatrica, è possibile osservare le molteplici transizioni tra modelli a base biologica e modelli a base psicologica usati per descrivere le malattie mentali. Questo rispecchia la complessità del problema: comprendere il rapporto tra mente e cervello. Vedo la psicoterapia trasformativa come una modalità olistica di trattamento delle malattie mentali. La terapia sostitutiva rappresenta l’altra faccia della medaglia, quella che vede erroneamente la malattia come alterazione di un processo naturale prevalentemente cerebrale e localizzato. Non credo abbia senso distinguere mente e cervello e trattarli come entità separate, perché essi dipendono l’uno dall’altro. Gli psichedelici sono strumenti epistemologici interessanti per esplorare quest’interfaccia: sia la ketamina che l’ayahuasca avviano determinati eventi cellulari che alla fine portano a profonde alterazioni nella coscienza. Come questo possa avvenire, non è ancora del tutto chiaro.
Hai menzionato l’esigenza olistica alla base della psicoterapia trasformativa e il conseguente tentativo di colmare il divario tra il sapere tradizionale delle tribù indigene e la moderna scienza naturale. Da dove sei partito per cercare di risolvere questo enorme problema?
L’idea stessa di conciliare queste due diverse visioni del mondo deriva dai miei viaggi etnobotanici in Sud America e in Messico, dove ho esplorato i metodi di guarigione tradizionali delle popolazioni indigene. Come medico sono sinceramente interessato a ridurre la sofferenza umana e ho riscontrato un promettente potenziale terapeutico nei vari metodi di induzione degli stati alterati di coscienza. Attraverso lo studio degli stati alterati possiamo non solo esplorare la questione di come si verifica la sofferenza mentale, ma anche cercare di risolverla sia dal punto individuale che collettivo, imparando a navigare in modo flessibile e adattativo diversi stati di coscienza.
…penso che un termine chiave che tu utilizzi anche nei tuoi saggi sia “ecologia profonda” (in inglese: “deep ecology”). Giusto?
Sì, l’ecologia profonda modifica il nostro modo di pensare l’origine delle malattie. I disturbi non possono essere ridotti a un singolo processo all’interno del corpo umano, ma derivano da complesse dinamiche di rete disadattive tra il soggetto e il suo ambiente. Ogni processo gioca un ruolo importante in questo ecosistema, partendo dalle interazioni metaboliche fino al livello della coscienza fenomenica. Le malattie si verificano quando questo ecosistema perde il suo equilibrio.
La pratica clinica trarrebbe grandi benefici dall’incorporare questa visione integrativa. L’utilizzo di sostanze psichedeliche potrebbe essere un aiuto in questa direzione. Pensa a un paziente depresso a cui viene somministrata psilocibina in un ambiente controllato e sicuro. L’ingestione di questo medicinale potrebbe accrescere la sua sensibilità verso i processi introspettivi che erano stati negativamente influenzati nel corso della malattia. Questo a sua volta potrebbe determinare una maggiore probabilità di un cambiamento adattivo degli atteggiamenti e dei comportamenti.
Il pensiero ecologico profondo è parte integrante delle culture arcaiche e delle visioni del mondo indigene, dove la sensibilità per gli squilibri nel mondo naturale è la chiave per un trattamento efficace. Ma può anche diventare una risorsa preziosa per la medicina e la scienza occidentale contemporanee, in modo tale che il loro obiettivo non sia limitato alla sola riparazione di carenze biomeccaniche isolate del corpo tramite sofisticate tecnologie. Penso che sia proprio in virtù della capacità delle sostanze psichedeliche di aumentare la meta-consapevolezza ad un livello ecologico profondo, che l’utilizzo medicinale di queste sostanze possa aprire la strada a nuovi paradigmi di trattamento.
Sono totalmente favorevole a utilizzare questa conoscenza per scopi medici. Anche solo pensando alla complessa questione sull’interazione tra mente e cervello, le risposte date da un curandero peruviano e da un neuroscienziato svizzero rimarrebbero pur sempre piuttosto differenti; questo rappresenta un bel dilemma, non credi?
A prima vista potresti avere ragione. L’approccio dualistico al problema della mente e del cervello deriva dal famoso filosofo francese René Descartes e ha fortemente influenzato il pensiero occidentale. Al contrario, il punto di vista delle tribù indigene del Sud America è completamente diverso essendo radicato in nozioni animistiche o panpsichiste del cosmo, dove tutto è animato. Se torniamo di nuovo all’ecologia profonda, mente e materia non appaiono più come entità distinte, ma sono entrambe parte dello stesso ecosistema, proprio come tutte le apparenze in questo mondo. Tenendo a mente ciò, la separazione dualistica non sembrerebbe altro che un artefatto, un errore concettuale del nostro linguaggio, dipendente dal punto di vista che si assume per risolvere il paradosso. Se qualcosa appare come mente o come materia, dipende in gran parte dalla prospettiva adottata.
Attribuisci validità conoscitiva e significato alle esperienze psichedeliche? Ovvero, ti riferisci sia alla natura imperfetta dell’esperienza soggettiva sia alla migliore interpretazione delle questioni metafisiche delle tribù indigene (dovuta sicuramente in parte alle esperienze psichedeliche)?
Il senso della realtà può essere profondamente alterato durante un’esperienza psichedelica. Una maggiore chiarezza mentale può bypassare le nostre capacità di attribuzione di significato, facendo improvvisamente apparire tutto come molto significativo. Pertanto, dubito che le esperienze psichedeliche possano aprire le porte a “verità assolute” altrimenti nascoste. Piuttosto possono favorire intuizioni sorprendenti sul tessuto della nostra realtà quotidiana: possono farci scoprire come la nostra percezione della realtà sia guidata da valutazioni e interpretazioni soggettive.
Nel quadro della psicoterapia trasformativa, tali intuizioni potrebbero essere utili per i pazienti che sono catturati in ruminazioni depressive su sé stessi o sul loro ambiente. La rimozione temporanea di tali convinzioni distorte e l’ampliamento della prospettiva del paziente potrebbero essere di grande sollievo. Tornando alla tua domanda: sebbene le esperienze psichedeliche ispirino certamente credenze metafisiche o psico-spirituali sulla natura del mondo, dubito del loro valore, specialmente nel momento in cui diventano dogmatiche. Ma credo nell’importanza dell’apertura mentale, e questa caratteristica può certamente essere favorita dall’utilizzo di sostanze che alterano la coscienza.
Facciamo un po’ di luce sul tuo lavoro in laboratorio: tu chiami “sforzo bio-archeologico” il tentativo di visualizzare degli stati mentali con strumenti come la risonanza magnetica funzionale (fMRI). I critici la definiscono una missione impossibile, ritenendo che il grado di astrazione sia troppo elevato, visti i numerosi passaggi intermedi che devono essere fatti prima di poter raggiungere un simile obiettivo. Come rispondi a tutto questo?
Mi vedo come un bio-archeologo che scandaglia le profondità del cervello cercando di decifrare i segnali che incontra da quelle parti. Questo compito ovviamente ha dei limiti. Nella maggior parte dei casi i segnali cerebrali sono come geroglifici completamente illeggibili. Inoltre, mi preoccupa molto il reale contenuto informativo dei segnali che ho l’impressione di saper decifrare.
In ultima analisi tutto è riducibile alla questione di quanto la nostra attività mentale possa essere realmente ricondotta a processi neuronali. Forse tutti quei segnali si riferiscono a processi che non sono neppure collegati all’esperienza soggettiva. Riconosco la presenza di molteplici problematiche, e non mi faccio illusioni riguardo a una possibile teoria unificata della coscienza, almeno nel prossimo futuro.
Tuttavia, vedo anche un grosso problema nell’attuale sviluppo nel campo delle scienze naturali: c’è la tendenza alla formazione di sotto-discipline che non dialogano fra loro. Un approccio transdisciplinare può impedirci di cadere in trappole dovute a prospettive epistemologiche limitate, come ad esempio la visualizzazione dei processi mentali mediante metodologie di neuroimaging. L’integrazione di prospettive e punti di vista diversi alla fine ci permetterà di capire il nostro cervello pezzo per pezzo.
E quale segnale ti piacerebbe scoprire in qualità di bio-archeologo?
Poiché sono molto interessato alla neurobiologia del sé, vorrei identificare i processi cerebrali associati al mantenimento e alla dissoluzione del senso del sé. Questo potrebbe darci una comprensione più profonda del motivo per cui le sostanze psichedeliche o la meditazione esercitano un impatto trasformativo. Ciò include anche gli stati di auto-trascendenza, in cui ci si sente profondamente connessi con i propri simili, il proprio ambiente e l’intero ecosistema.
Nella nostra cultura le sostanze psichedeliche soffrono ancora di una cattiva reputazione. Secondo te è possibile integrare gli stati di coscienza alterati all’interno della nostra cultura, magari dirigendosi verso una sorta di spiritualità secolare, come proposto da Thomas Metzinger?
Prima di tutto, credo che l’immagine negativa delle sostanze psichedeliche nella nostra cultura sia in gran parte dovuta allo spirito della nostra epoca, che determina una paura profonda di perdere il controllo delle nostre vite eccessivamente pianificate. Rispetto alle culture indigene, ci mancano spazi sicuri e culturalmente accettati per allentare il nostro controllo cosciente ed esplorare gli strati più profondi di coscienza attraverso le sostanze psichedeliche. Idealmente, tali spazi dovrebbero essere liberi da manipolazioni religiose o dottrinali. Vorrei sottolineare l’aspetto secolare che hai menzionato: sta all’individuo decidere quale significato attribuire a queste esperienze. Da questo punto di vista l’apertura e la curiosità sembrano essere più appropriate rispetto a interpretazioni ideologiche o psicospirituali acritiche.
Un’esperienza psichedelica include anche la volontà di arrendersi a pensieri negativi ed emozioni difficili che potrebbero emergere nel corso della sessione. Un atteggiamento di apertura e accettazione nei confronti dell’intero spettro delle emozioni, piuttosto che la soppressione delle emozioni negative, sembra essere associato a un aumento del benessere psicologico a lungo termine.
Infine, credo che un uso attento e intelligente del potenziale trasformativo degli stati alterati di coscienza potrebbe non solo migliorare la pratica medica, ma anche la nostra convivenza culturale come esseri umani.
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